26 Feb
Con il coronavirus in pochi giorni la nostra vita è cambiata.
Nei supermercati i generi alimentari vengono razziati lasciando scaffali vuoti, le mascherine con filtro sono scomparse, la gente ha requisito ogni genere di disinfettanti da farmacie e negozi sanitari, le piazze e le strade sono vuote, molti esercizi commerciali e di ristorazione chiudono, la borsa scende vertiginosamente, il turismo sembra all’improvviso volatilizzato, vengono fatte le prime anticipazioni sulle perdite finanziarie e le conseguenze sulle economie nazionali.
Sembra di essere in guerra. Per certi versi lo siamo già.
Una schiera di medici, infettivologi, virologi, biologi, analisti, statistici ma anche matematici, politologi, storici si profondono in dissertazioni interminabili per spiegare cose che conoscono solo per analogia, per prevedere l’imprevedibile sul coronavirus, per divinare in modo improbabile ciò che ai più appare scuro e minaccioso.
Stiamo assistendo, da una parte ad una messe di provvedimenti duri e decisi, ad una serie di obblighi di comportamento e contemporaneamente ad una mielosa e carezzevole, incessante ed implacabile opera di tranquillizzazione sul contagio da coronavirus.
Da una parte viene consigliato di restare in casa, non allontanarsi dai luoghi prescritti, di non frequentare luoghi affollati, di non lavorare, di non andare a scuola, dall’altra però di restare, allo stesso tempo sereni, di non farsi prendere dal panico, di non drammatizzare “perché è tutto sotto controllo”. Siamo bravissimi cittadini, abbiamo capacissimi medici, attrezzatissimi ospedali: i nostri medici ed il nostro sistema sanitario nazionale sono tra i migliori del mondo ed in questo modo vinceremo.
Messaggi contraddittori provengono però anche dalle autorità sanitarie. Per alcuni siamo alle porte della più tragica delle pandemie degli ultimi decenni, per altri stiamo vivendo in maniera incredibilmente ansiosa un virus meno mortale della solita influenza invernale.
I politici e gli amministratori si mostrano di continuo in televisione, sui media, sui social network, e ovunque sia possibile inviare messaggi.
Il contenuto ha sempre la stessa finalità: tranquillizzare, rasserenare combattere la paura.
In una maniera a volte talmente insistente e minimizzante da rendersi poco convincenti, quando non decisamente ridicoli.
I messaggi che imperversano hanno contenuti chiaramente contraddittori. Da una parte la razionalità rassicurante che cerca di conquistare l’uditorio e convincere la popolazione, e dall’altra l’emotività e l’ansia che avanza ad ogni nuovo provvedimento restrittivo preso o ad ogni bollettino in cui si ammette che il nemico ha fatto altri prigionieri o ha mietuto nuove vittime.
La paura però parte con un enorme vantaggio alle spalle, alberga nella mente dell’uomo da milioni di anni. È il sentimento più antico e più vicino all’uomo. Nasciamo con la paura di lasciare il grembo materno per un mondo nuovo e sconosciuto in cui arriviamo all’improvviso, moriamo con la paura di lasciare il “nostro” mondo senza sapere cosa ci aspetta dopo.
Ancor prima del coronavirus il nemico numero uno da combattere appare così la paura. Ognuno la vive in proprio e la proietta dal suo angolo di prospettiva.
La paura di essere infettati e di morire di noi persone comuni, la paura di adottare contromisure o decisioni sbagliate e di essere marchiati come cattivi amministratori, la paura di non essere bravi medici e farsi scoprire inadeguatamente informati o impreparati, la paura della paura degli altri.
Oltre i ragionamenti, i proclami, le previsioni azzardate, la rasserenazione forzata, gli appelli sembra che a vincere su tutto siano la paura ed il panico.
Ma se la paura è la compagna dell’uomo da milioni di anni, anche la lotta dell’uomo per sconfiggere la paura ha la stessa età.
A giudicare dai risultati, questa battaglia l’uomo nel tempo l’ha combattuta e vinta. Sarà sicuramente così anche questa volta.
Armando Piccinni
Presidente della Fondazione BRF