16 Set
Quante volte il fuoco della rabbia ci ha posseduto. Quante volte ci siamo ritrovati a fare a botte con i nostri fratelli o abbiamo assistito a litigi familiari con urla, qualche piatto rotto o un bicchiere in frantumi.
La rabbia ci cambia, ci trasforma, ci fa diventare altre persone. Ci fa fare cose che mai avremmo fatto in condizioni ordinarie.
L’uomo ha dentro di sé la rabbia e la violenza. E queste, in determinate situazioni, vengono fuori. In maniera a volte imprevedibile e inaspettata. Anche da parte di persone che mai avremmo sospettato essere capaci di comportamenti del genere.
Per milioni di anni la storia dell’uomo è coincisa con la storia di lotte, battaglie, guerre, sopraffazioni, violenze, soprusi, angherie, ingiustizie, vessazioni. Segno che la rabbia, l’aggressività, la violenza esistono dentro ognuno di noi e non ci hanno mai abbandonato.
La storia dell’uomo è, però, anche la storia del suo sforzo di convivenza con gli altri, della comprensione del principio secondo cui abbiamo il diritto di vivere e godere della nostra vita pacificamente, senza cattiverie e malvagità.
Sono così nate e maturate le regole della convivenza pacifica e del rispetto delle altre persone.
L’avvento della legge positiva ha sancito tale esigenza e ci ha accompagnato in questo percorso di miglioramento della nostra vita sulla strada della “civilizzazione”.
Naturalmente questo percorso non è stato e non è uguale per tutti.
Quando ognuno di noi viene al mondo, il nostro cervello è la realizzazione del progetto scritto dal patrimonio genetico dei nostri genitori. Questo ci permette facilmente di capire che non esiste un cervello uguale ad un altro, con differenze quindi praticamente infinite.
E se anche ammettessimo per ipotesi che nasciamo tutti uguali e tutti con lo stesso cervello, dovremmo comunque poi constatare che l’ambiente dal primo istante di vita e per tutto il resto della vita ci plasma, ci cambia di continuo creando quel dialogo interminabile tra noi e il mondo circostante da cui attingiamo.
Le individualità e di conseguenza i comportamenti che le esprimono sono per questo il risultato sia della nostra dotazione di base sia delle modificazioni dell’ambiente sul patrimonio di partenza.
La capacità di adattarci agli altri, di vivere pacificamente, nel rispetto dei nostri simili, è una conquista. Che ci impegna dal profondo.
L’adesione alle norme, la comprensione delle regole, la condivisione dei principi di socialità e di convivenza, l’aderenza ai precetti ci consentono di vivere insieme agli altri, in un adattamento fiducioso e appagato.
Alcuni, per fortuna la maggioranza, raggiungono seppur in modi differenti questa condizione. Per altri questo stato non viene mai conquistato.
La rabbia, l’aggressività, la violenza restano canali di deflusso aperti, senza filtri, “contro” tutto e tutti. Sono persone che non sono riuscite, per infiniti motivi, ad adattarsi al rispetto degli altri. Non hanno trovato la loro dimensione di vita nella convivenza: conoscono e praticano il solo linguaggio della lotta, della violenza e dell’aggressione.
Gli assassini di Willy appartengono a tale categoria. Nel loro percorso il risultato raggiunto prevede questo: rabbia, aggressività e violenza.
Indiscriminata, immotivata, cieca, senza una ragione. Violenza e basta.
Possiamo invocare i problemi della famiglia, della scuola, della società e così via. Problemi che sono sicuramente corresponsabili, ma il cui miglioramento pur essendo auspicabile, sposta il problema nel futuro.
Willy è, però, morto in questi giorni.
I suoi assassini hanno imboccato e percorso la strada della violenza e della malvagità.
Il senso di onnipotenza, forza, potere, energia, fino alla facoltà di decidere sulla vita o sulla morte di un altro essere umano, è per alcuni descritto come inebriante. È una sorta di scarica di adrenalina che dà piacere. E noi sappiamo che tutto ciò che dà piacere in alcuni casi può diventare attaccamento e dipendenza.
Non a caso alcuni psichiatri autorevoli hanno parlato di «addiction to death» (Marc Reisinger), dipendenza dal desiderio di dare la morte.
Le cronache dei quotidiani sono piene di storie di soggetti che, dopo aver scontato la pena, al termine della reclusione in poco tempo ricadono nello stesso comportamento e negli sessi reati.
Il percorso carcerario che aspetta gli assassini di Willy potrebbe portarli a riflettere. E questa è la speranza di tutti.
Per il momento i fratelli Bianchi chiedono, attraverso i loro avvocati, che dopo il periodo trascorso in isolamento per le misure anti-Covid l’isolamento venga prolungato perché temono per la loro incolumità.
Hanno ricevuto minacce da parte degli altri detenuti. È paradossale che proprio loro, dispensatori di violenza e aggressioni, si trovino ora nella situazione specularmente opposta: da picchiatori stanno vivendo la paura di essere oggetto di violenze. Quelle violenze che hanno sempre praticato con arroganza per sopraffare ed opprimere gli altri.
Armando Piccinni
Psichiatra
Presidente della Fondazione BRF
Professore straordinario Unicamillus