27 Giu
Nelle ultime settimane ne abbiamo sentito parlare a lungo: finalmente – titolavano nei primi giorni di giugno diverse testate nazionali – è arrivato il farmaco contro l’Alzheimer. Alcuni importanti accademici, come Roberto Burioni, hanno non a caso parlato di “giornata storica”.
Pochi giorni dopo la buona novella, però, alcuni altri ricercatori e scienziati in tutto il mondo si sono mostrati più cauti rispetto alla lettura semplicistica di un medicinale che potrebbe debellare la malattia neurodegenerativa.
Da qui urge sgombrare il campo da errori e malintesi. Innanzitutto bisogna precisare che l’Alzheimer è una forma di demenza che danneggia le funzioni intellettuali del cervello (memoria, orientamento, calcolo, ecc.). Nelle prime fasi della malattia è solitamente
interessata la memoria a breve termine e il paziente ha difficoltà a imparare e conservare nuove informazioni. Alla fine, la memoria più vecchia o distante si perde gradualmente, e diventa difficile recuperare i ricordi di eventi e persone della vita precedente.
Successivamente, possono svilupparsi altri sintomi come difficoltà nel tradurre i pensieri in parole, difficoltà nel compiere semplici azioni dirette e difficoltà nel riconoscere volti o oggetti noti. In termini pratici, una persona con l’Alzheimer in stato avanzato potrebbe non essere in grado di pianificare i pasti, gestire i soldi, ricordare di prendere le medicine nei tempi previsti. La persona può anche perdere il senso dell’orientamento e perdersi mentre guida o cammina, anche in un quartiere familiare.
Fino ad oggi non esisteva una cura per la malattia di Alzheimer e non c’era modo di rallentarne la progressione, ma soltanto trattamenti per “aggredire” i sintomi. A riguardo, ad esempio, alcuni farmaci ad oggi utilizzati per l’Alzheimer, chiamati “inibitori della colinesterasi”, agiscono aumentando i livelli cerebrali del neurotrasmettitore acetilcolina, contribuendo a ripristinare la comunicazione tra le cellule cerebrali.