14 Sep
Definire cosa sia lo Yoga è sempre piuttosto complesso, o meglio riduttivo, vista la sua origine millenaria e le sue ramificazioni nei molteplici stili. Difficoltà che può portare ulteriore confusione quando il contesto di riferimento è quello occidentale, dove gli stili proposti sono spesso in contraddizione tra loro o distanti dal lignaggio tradizionale con lo Yoga Vidya, ovvero la Scienza Yoga. Una volta individuato lo stile di Yoga più adatto a noi, però, ecco che si presenta un nuovo “ostacolo”, che si traduce nel bisogno di trovare una definizione, una cornice razionale che ci permetta di porci degli obiettivi tangibili, misurabili, e di comprendere dove la pratica voglia esattamente condurci.
Parlo volutamente di ostacolo perché lo Yoga richiede uno sforzo in più, che è quello di provare ad uscire da quel bisogno – tanto caro alla mente ordinaria – di definire le cose, di approcciarsi alla pratica con fiducia e sincera curiosità, mettendo da parte giudizi e aspettative, praticando nella consapevolezza e nella fiducia che una trasformazione accadrà. Sono atti che richiedono una certa dose di coraggio e di forza interiore, ma è quando si impara ad affidarsi che, ad un certo punto del proprio cammino, qualcosa dentro di noi si sblocca e si fa chiaro quello che è il significato – nonché il fine ultimo – dello Yoga, ovvero l’unione. Ed ecco allora che quello che inizialmente appariva come un ostacolo si trasforma in un grande dono.
L’unione – ad un livello più semplicistico, ma non per questo riduttivo – è intesa come integrazione, di corpo, mente e spirito (o coscienza). Di quelle parti di noi che nell’era moderna, dominata da digitalizzazione e individualismo, siamo abituati a considerare come separate, con il conseguente risultato di sentirci frammentati. Una condizione che di fronte al manifestarsi di malattie mentali, e nello specifico dei DCA (Disturbi del Comportamento Alimentare) – verso cui rivolgiamo in modo generico l’attenzione in questo articolo – conduce inevitabilmente a non avere chiaro quale possa essere il percorso di cura più adatto da intraprendere per tornare a quel senso di unione.
Siamo abituati a curare spesso il sintomo e non la causa, l’origine della malattia; siamo abituati a curare il corpo o la mente, cadendo in un approccio dualistico che non si prende invece cura della totalità, oltre che dell’unicità ed irripetibilità, della persona. Ci prendiamo cura di noi quando il corpo o la mente manifestano un sintomo, non riuscendo a cogliere preventivamente quei segnali che anticipano la malattia. Perché accade? Perché manchiamo di consapevolezza enterocettiva ed emozionale, ritrovandoci ad essere disconnessi da noi stessi e da quanto accade dentro di noi. Tale mancanza si acuisce quando la malattia è intangibile e invisibile e, oltre alle difficoltà enterocettive, si manifestano il senso di vergogna, il timore di non essere compresi e di venire giudicati, e la credenza di poterne uscire da soli. È questo il caso dei Disturbi del Comportamento Alimentare, dove non sempre il corpo mostra i segni della malattia…