23 Nov
«Ogni tipo di violenza sulle donne è anche, e sempre, sia violenza fisica che violenza psicologica. Una donna vittima di abusi o di violenza rimane allo stesso tempo vittima di un trauma che si porterà dietro per anni. Come fossero vere e proprie stigmate che la donna è costretta a subire». La professoressa Anna Coluccia, criminologa e ordinario all’università di Siena, è profonda conoscitrice dei traumi cui una donna vittima di violenza va incontro. Con lei, in occasione della Giornata contro la violenza sulle donne (25 novembre), abbiamo parlato per comprendere i passi in avanti fatto finora contro questa piaga, e cosa ancora bisognerebbe fare.
Partiamo da principio, professoressa. Ogni tipo di violenza fisica, dunque, è anche psicologica?
È innanzitutto psicologica. Tenga conto che nella maggioranza dei casi una donna vittima di violenza raramente denuncia sin dall’inizio. E questo per via proprio di una “violenza psicologica” per cui la vittima vive una sorta di senso di colpa che la porta a giustificare l’abuso fisico.
In che senso?
Molte donne si convincono che in fin dei conti quello schiaffo, quel pugno o quel calcio è dovuto a un loro comportamento errato. In questa maniera, di fatto, la donna si sente corresponsabile insieme al marito di quanto accaduto. È lì che si arriva ad accettare le tesi più improbabili: non si è stata una buona moglie, non si è state brave a pulire casa, e così via.
La componente psicologica, però, gioca un ruolo drammaticamente fondamentale anche dopo la violenza fisica…
Certo. Ciò che rimane è un profondo trauma. Molte donne si sentono marchiate a vita per l’abuso subito. Ecco perché, in casi come questi, è fondamentale l’intervento dello psicoterapeuta.
Qual è il suo compito?
Il trauma va ricomposto con azioni mirate che durino nel tempo, è un processo lungo ma inevitabile se si vuole riemergere dalla violenza psicologica. Vedo di ottimo supporto anche i gruppi di auto-aiuto: condividere il dolore con altre persone che possono comprendere quella sofferenza è altrettanto fondamentale.
C’è il rischio di andare incontro a una vera e propria patologia se non si interviene?
In molti casi si manifesta un disturbo da stress post-traumatico e in questi casi è inevitabile intervenire anche in termini clinici.
Che tipo di personalità, invece, si rintraccia nel carnefice?
Questo è il punto: noi possiamo avere sì dei campanelli d’allarme, ma molto spesso le persone che si rivelano violente conducono una vita impeccabile, sono professionisti affabili, che però poi si trasformano in “orchi” appena rientrano a casa. Io ho seguito casi di uomini che picchiavano le donne solo perché non avevano pulito bene. Il punto è che le ragioni per cui si diventa violenti sono soltanto alibi che i carnefici si danno: mi è capitato di imbattermi in uomini, professionisti di apparente specchiata moralità, volevano che il piatto di pasta fosse fumante già sul tavolo appenano apriva la porta di casa, altrimenti la moglie sarebbe stata picchiata…
Che rapporto c’è tra vittima e carnefice da questo punto di vista?
È un rapporto, come spesso accade, dipendente per entrambi. Anche il carnefice non sarebbe tale se non avesse la sua vittima. È qui che comincia la violenza psicologica, per cui l’uomo tende a isolare la donna dai suoi amici, dalla sua famiglia; tende a mettere la famiglia in cattiva luce; tende in qualche maniera a rendere la donna dipendente da lui perché in realtà è l’uomo ad aver bisogno di quella dipendenza vittima-carnefice.
E da qui, immagino, nasce il fatto che per una donna è sempre difficile denunciare sin da subito…
Esattamente. La donna vive, come abbiamo detto, una sorta di senso di colpa: si sente lei per prima responsabile della violenza. Ma, soprattutto, in questi casi si instaura una sorta di circolarità della violenza: prima c’è la luna di miele, dunque c’è apparente affetto, dopo cominciano i primi segni di violenza, magari uno schiaffetto, ma subito l’uomo si scusa, dice che non capiterà mai più, che è colpa magari dell’alcol o dello stress. E così torna la luna di miele, che però poi si trasforma ancora una volta in nuova violenza aumentata di grado: lo schiaffo o il pugno si fanno via via più forti in questa continua circolarità.
Perché, però, dopo le prime forme di violenza si ha difficoltà a denunciare?
Per via della violenza e della soccombenza psicologica. Ecco perché io molto spesso anche in questi casi parlo di una forma di sindrome di Stoccolma.
Come si fa ad uscire da questa condizione?
Non è facile. La donna si sente come chiusa in una sorta di carcere mentale, molto spesso. Ma quando la donna trova la chiave giusta riesce ad uscire. Ripeto: non è facile. Ci sono casi di donne che hanno denunciato il marito anche dopo 20 anni di violenze subite. Tenga conto che la media prima della denuncia si aggira sugli 8 anni, ma ovviamente molto dipende anche dal contesto familiare.
Quali consigli si sente di dare?
Uno, fondamentale: denunciare subito. Sin dal primo schiaffo, o dal primo pugno. L’errore è cominciare a giustificare o a scusare il proprio partner. Non bisogna mai aspettare. Anche perché un uomo violento è anche sempre bugiardo: ci dirà che è stato un errore, che non capiterà mai più, ma non è vero. Si illude, forse, anche lui per primo che può cambiare, ma non è poi quello che accade.