21 Mar
Nell’Unione Europea una persona su venti – secondo le stime dell’European Centre for Disease Prevention and Control (ECDC) – contrae infezioni in ospedale e all’interno di una struttura sanitaria. Sono 4,1 milioni di pazienti all’anno: 37mila di loro non sopravvivono.
Uno studio pubblicato da Plos Medicine può darci un utile termine di confronto: l’impatto di sei delle più tipiche infezioni correlate all’assistenza è superiore a quello di malattie infettive come l’influenza, l’Hiv/Aids e la tubercolosi. Non è poi da sottovalutare l’impatto economico: le infezioni correlate all’assistenza (ICA) obbligano a prolungare le degenze, sono causa di disabilità: aggravano pazienti, famiglie e sistemi sanitari di cifre che l’organizzazione Mondiale della Sanità quantifica in 7 miliardi di euro in Europa e tra i 28 e 45 miliardi di dollari negli Stati Uniti.
Inevitabile pensare a Ignác Fülöp Semmelweis, il medico ungherese la cui triste storia è stata raccontata – nella tesi di laurea – da Louis-Ferdinand Céline. Semmelweis aveva notato come la febbre puerperale – causa della morte di circa il 40% delle donne che partorivano in ospedale – colpisse le donne visitate da medici provenienti da una sala operatoria dove avevano eseguito un’autopsia senza protezione e senza lavarsi oppure che avevano prima visitato una donna infetta. La scoperta non venne riconosciuta dalla comunità scientifica e Semmelweis, internato in manicomio, morì nel 1865.
Il contesto, ovviamente, è del tutto diverso ma è singolare come tutti, a partire dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, siano convinti che l’aumento delle infezioni all’interno degli ospedali si possa arginare anche convincendo tutti gli operatori sanitari della necessità di accurati e frequenti lavaggi delle mani.